"Ovosodo" di Paolo Virzì (1997)
- alessandrogasparin1
- 19 lug
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 21 lug
Capita spesso che dei film all’apparenza leggeri e spensierati nascondano spessore e profondità, tanto da acquisire valore nel tempo e assurgere allo status di cult. Succede a prescindere dal genere e dalle tematiche trattate, e nel caso specifico parlo di un titolo che ho riconsiderato e apprezzato a distanza di molti anni dalla prima volta che lo vidi.

“Ovosodo” uscì in sala nel Settembre del 1997, per la regia di Paolo Virzì che aveva già all’attivo “La bella vita” (1994), che gli valse nel 1995 David di Donatello e Nastro d’argento come Miglior Regista Esordiente, e “Ferie d’Agosto” (1996). Il contesto in cui si inserisce è quello di una fase transitoria del cinema nostrano, ovvero gli anni novanta memori di ciò che era stata la stagione d’oro terminata negli ottanta. Guardando indietro a quel periodo, dominato da un lato dal format televisivo e dall’altro da irraggiungibili standard d’oltreoceano, va dato atto che una nuova generazione di cineasti si muoveva a fari spenti per far riavvicinare il pubblico italiano al grande schermo. Virzì fa parte di quel movimento che, insieme ad esempio a Daniele Lucchetti e Francesca Archibugi, avanzava verso il terzo millennio parlando il linguaggio della commedia d’autore, al contempo ironica e sentimentale ma densa di emotività e significato sociale. Nonostante il luogo dove i fatti si svolgono sia la Livorno che ha dato i natali al regista, il messaggio dell’opera ha il carattere ampio tipico del romanzo di formazione. Ciò fa sì che lo spettatore possa immedesimarsi in prima persona nel racconto, ripercorrendo le tappe della propria crescita.

La trama vede protagonista Piero Malsani (Edoardo Gabriellini) detto Ovosodo, un adolescente cresciuto nel rione omonimo della città toscana. Membro di una famiglia umile, con padre carcerato e un fratello maggiore disabile, vede la propria adolescenza illuminata dalla professoressa di lettere delle scuole medie Giovanna (Nicoletta Braschi), che lo ispira a dedicarsi alla scrittura diventando sua amica e confidente. Sarà però l’incontro con Tommaso (Marco Cocci), conosciuto all’inizio dell’ultimo anno di liceo, che cambierà la vita di Piero per sempre. Attratto dal suo carisma, il giovane si farà trascinare in un mondo prima sconosciuto popolato da artisti e filosofi, canne, musica e politica, trascurando la vita nel suo vecchio quartiere.

Si tratta della storia comune di un ragazzo semplice come tanti, con le sue avventure, passioni e scoperte. Ma all’interno di questa cornice l’autore parla anche del conflitto tra classi in Italia, e sotto la patina di un lavoro divertente e destinato ad una vasta audience vive una realtà decisamente amara. Tale aspetto, fa trasparire la lezione che Virzì ha imparato dai grandi della commedia italiana del passato come Dino Risi e Mario Monicelli. Dopo mille giravolte come in un gioco dell’oca, Piero troverà infine la sua strada. Mentre lo spettatore vede un ragazzino nel frattempo divenuto uomo, la soluzione tradisce l’accettazione agrodolce di una vita umile ma onesta, tanto quella di Piero quanto di quella di un’intera generazione disillusa dopo una bulimia di aspettative collettive disattese dalla mancata ascesa sociale. A vincere la sfida è infatti il rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato, e il convivere con una malinconia definita “quella specie di ovosodo dentro, che non va né in su né in giù, ma che ormai mi fa compagnia come un vecchio amico…”.



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